IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimita' sollevata, in via incidentale. Ritenuto in fatto Con decreto di citazione diretta emesso dal pubblico ministero in data 23 gennaio 2004 Landi Paolo veniva tratto a giudizio dinanzi a questo tribunale per rispondere della seguente imputazione: «delitto p. e p. dagli artt. 81, 646, 61 nn. 7 e 11 c.p., perche' al fine di profitto abusando della qualita' di procacciatore di affari di fatto per conto della Compagnia Cauzioni avendo percepito dai clienti della predetta societa', a titolo di premio per le fideiussioni stipulate per conto della medesima societa', di cui al foglio allegato, la somma complessiva di lire 2.013.902.984, ometteva di riversare alla Compagnia Cauzioni l'intero ammontare, detratte le provvigioni, in particolare trattenendo complessivamente lire 1.348.733.096 lorde, con grave danno altrui. In Roma fino ad epoca successiva e prossima al 24 novembre 1997». Nel medesimo procedimento veniva tratto a giudizio, per fatti aventi analogo titolo di reato e connessi con quelli contestati al Landi, Mottola Bruno, nei cui confronti, a seguito di perizia dibattimentale che accertava l'incapacita' dello stesso di partecipare coscientemente al processo, veniva disposta all'udienza del 28 febbraio 2005 la sospensione del processo ai sensi dell'art. 71 c.p.p., con separazione della relativa posizione. Si procedeva oltre nei confronti del Landi e all'udienza del 22 marzo 2005 veniva dichiarata l'apertura del dibattimento. Si svolgevano quindi le udienze di istruzione probatoria del 30 maggio 2005, del 19 settembre 2005 - rinviata per adesione dei difensori delle parti all'astensione proclamata dall'Unione delle camere penali e del 19 ottobre 2005. All'udienza del 30 gennaio 2006, la difesa del Landi eccepiva l'incostituzionalita' dell'art. 10 comma 3 legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d.«ex Cirielli»), nella parte in cui rende inapplicabili le piu' favorevoli norme in tema di termini di prescrizione dei reati ai processi nei quali, alla data di entrata in vigore della stessa, vi era gia' stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione. I1 pubblico ministero si associava alla richiesta, mentre il difensore della costituita parte civile chiedeva che la questione fosse dichiarata manifestamente infondata. Il tribunale si riservava di decidere rinviando all'odierna udienza. Considerato in diritto Il Tribunale ritiene di dover rimettere alla Corte costituzionale il giudizio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005 per violazione degli artt. 3, 10 ed 11 della Costituzione. Va anzitutto precisato che la questione e' rilevante nel presente processo. Infatti, sulla base della previgente disciplina relativa ai termini di prescrizione, il tempo necessario a prescrivere un delitto per il quale la legge prevede una pena edittale massima compresa tra i cinque ed i dieci anni di reclusione e' pari a dieci anni, suscettibile di aumento sino ad un massimo complessivo di quindici anni in caso di atti interruttivi (tra i quali e' compreso il decreto di citazione a giudizio). Per determinare il tempo necessario a prescrivere si doveva infatti avere riguardo - ai sensi del secondo comma dell'art. 157 c.p. - al massimo della pena stabilita per il reato tenuto conto dell'aumento massimo di pena stabilita' per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze aggravanti. In caso di concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti deve applicarsi il giudizio di valenza di cui all'art. 69 c.p., e determinarsi quindi la pena massima applicabile all'esito del giudizio stesso (art. 157 comma 3 c.p.). Non essendovi, allo stato, i presupposti per ritenere immediatamente concedibili le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate al Landi, come pure richiesto dal difensore dell'imputato e dal pubblico ministero all'udienza del 30 gennaio 2005, e quindi far operare la disciplina di cui all'art. 226 d.lgs. n. 51 del 1998, il reato per cui si procede risulta allo stato punito con pena superiore a cinque anni di reclusione (pena per il reato di cui all'art. 646 c.p. reclusione fino a tre anni, aumentata di un terzo per effetto della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 7 c.p. e di un ulteriore terzo per effetto della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 11 c.p., pena finale massima anni cinque e mesi quattro di reclusione). Pertanto, il termine di prescrizione del reato come sopra indicato e' di dieci anni, con aumento a quindici anni, per l'intervento di atti interruttivi. Inoltre, l'art. 158 comma 1 c.p. disponeva che in caso di reato continuato, il termine di prescrizione inizia a decorrere al cessare della continuazione. Infine, l'art. 161 comma 2 c.p. prevedeva che le cause di sospensione od interruzione relative ad alcuni dei reati per i quali si procede congiuntamente hanno effetto anche per gli altri reati. Quindi, sulla base di queste disposizioni, i reati ascritti all'imputato non sono prescritti. La nuova disciplina contenuta nella legge n. 251 del 2005 (art. 6, che modifica gli articoli da 157 a 161 del codice penale) prevede, invece, che «La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto...». Per determinare il tempo necessario a prescrivere «si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tenere conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante». In caso di atti interruttivi, il termine di prescrizione inizia nuovamente a decorrere, ma in nessun caso l'interruzione della prescrizione puo' - per procedimenti diversi da quelli indicati nell'art. 51 commi 3-bis e 3-quater c.p.p., e salva l'ipotesi di recidiva aggravata (l'imputato non e' gravato da precedenti condanne) - comportare l'aumento di piu' di un quarto del tempo necessario a prescrivere. E' stata, inoltre eliminata la disposizione che prevedeva che in caso di continuazione dei reati il termine di prescrizione iniziasse a decorrere solo dal giorno in cui e' cessata la continuazione, nonche' quella che, in caso di procedimento unitario per reati tra loro connessi, prevedeva che le cause di sospensione o di interruzione della prescrizione relative ad uno dei reati connessi avesse effetto anche per gli altri. Quindi il termine di decorrenza iniziale della prescrizione coincide, anche in caso di continuazione, con la consumazione di ciascun reato e le cause di sospensione ed interruzione della prescrizione relative ad un reato non esplicano effetto riguardo agli altri reati connessi per i quali si proceda congiuntamente. Pertanto, sulla base della nuova disciplina i reati ascritti al Landi sarebbero gia' estinti per prescrizione. Infatti, non avendo piu' rilevanza le circostanze aggravanti ad effetto ordinario (quali quelle indicate nell'art. 61 c.p. che comportano un aumento della pena fino ad un terzo), tutti gli episodi di appropriazione indebita si prescrivono nel termine di sei anni, termine che puo' essere per l'intervento atti interruttivi aumentato al massimo a sette anni e mesi sei, decorrenti dalla data di commissione dei singoli reati. Pertanto, trattandosi di fatti commessi al piu' tardi nel mese di novembre del 1997 e valendo per Landi solo la sospensione del dibattimento per l'adesione del difensore all'astensione dalle udienze (dal 19 settembre al 19 ottobre 2005 per giorni 30; non estendendosi all'imputato i periodi di sospensione relativi all'altro imputato Mottola Bruno), sarebbe interamente decorso il termine massimo di prescrizione dei reati, e dunque il tribunale dovrebbe pronunciare sentenza di improcedibilita' ai sensi degli artt. 157 e 160 c.p., e 531 c.p.p. Tale pronuncia e' allo stato impedita proprio dalla disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 251, in quanto - poiche' alla data di entrata in vigore della legge era gia' stata dichiarata l'apertura del dibattimento - deve trovare applicazione la previgente normativa, che nel caso in esame determina un raddoppiamento dei termini di prescrizione rispetto alla nuova. Per tali ragioni, la questione appare rilevante nel presente giudizio. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione (giacche', ovviamente, il tribunale puo' evitare di rimettere la questione eccepita alla Corte costituzionale solo ove la ritenga manifestamente infondata, e dunque non meritevole dello scrutinio di costituzionalita' devoluto al giudice delle leggi), deve rilevarsi quanto segue. Per quanto consta, e' la prima volta che il legislatore ordinario predispone una disciplina transitoria di natura sostanziale (giacche' non sembrano esservi dubbi che la prescrizione non e' istituto processuale, ma attiene alle cause di estinzione dei reati e ha dunque evidente natura penale sostanziale), che impone di non applicare retroattivamente nei giudizi in corso la disciplina penale sopravvenuta piu' favorevole per l'imputato. E' ancora da precisare che - nonostante taluni autorevoli orientamenti della dottrina - codesta Corte ha sempre in passato ritenuto che ha rilievo costituzionale solo il divieto di retroattivita' della norma penale incriminatrice (art. 25 comma 2 Cost.), e non anche il principio della retroattivita' della norma penale piu' favorevole di cui all'art. 2 comma 3 c.p. (v., da ultimo, sent. n. 80 del 1995, che ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata in riferimento all'art. 20 della legge n. 4 del 1929, che prevedeva la irretroattivita' delle norme penali finanziarie piu' favorevoli). Peraltro, tale norma derogatoria e' stata infine abrogata dal legislatore con l'art. 24 della legge n. 507 del 1999, di talche', prima della previsione contenuta nell'art. 10 della legge n. 251, non residuavano piu' nel nostro ordinamento casi di discipline derogatorie al principio generale di applicazione retroattiva della legge penale piu' favorevole, contenuto nell'art. 2 comma 3 c.p. Va anche osservato che la Corte di cassazione ha gia' affrontato la questione in oggetto, ritenendola manifestamente infondata. In particolare, nella pronuncia piu' articolata emessa sul punto (VI Sezione penale, sent. n. 460 del 2005, udienza 12 dicembre 2005, deposito 10 gennaio 2006), la S.C. ha ritenuto: che il principio di applicazione retroattiva della norma penale piu' favorevole non ha rilievo costituzionale; che il legislatore ordinario e' dunque libero di modulare e graduare le modalita' di applicazione della legge penale successiva piu' mite, introducendo condizioni, limiti ed eccezioni che ritenga opportuni; che tale disciplina non incorre nella violazione dell'art. 3 della Costituzione ove le soluzioni legislative adottate siano sorrette da valutazioni e giustificazioni non irragionevoli; che comunque - come evidenziato dalla Corte costituzionale in alcune sue pronunce, e confermato dagli sviluppi del diritto internazionale e comunitario - il principio di retroattivita' della norma penale piu' favorevole puo' avere riguardo solo ove vi sia stato un mutamento, favorevole al reo; nella valutazione sociale del fatto tipico; che, nel caso di specie, la soluzione legislativa adottata nel delineare la disciplina transitoria non viola il principio di uguaglianza, in quanto e' del tutto normale che la disciplina della prescrizione possa dar luogo a diversita' di trattamento tra imputati di fatti identici o analoghi, anche commessi nello stesso momento, per effetto di una serie di variabili che incidono sui tempi dell'accertamento penale; che, inoltre, la disciplina transitoria contenuta nella legge n. 251 da un lato rende inapplicabili retroattivamente le nuove norme in tema di prescrizione, laddove siano meno favorevoli delle precedenti; dall'altro, prevedendo che continuino ad applicarsi nei procedimenti penali relativi ai fatti pregressi le vecchie norme, fa si che trovino applicazione le norme che vigevano al momento in cui il fatto di reato e' stato commesso. Pertanto non viene in alcun modo intaccato il nucleo centrale della garanzia dell'istituto della prescrizione. Alcuni giudici di merito hanno invece sollevato la questione relativa alla legittimita' costituzionale della disciplina transitoria, rilevando che l'individuazione della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, quale discrimine per l'applicazione ultrattiva della disciplina della prescrizione previgente nei casi in cui essa sia concretamente piu' sfavorevole per l'imputato, viola il principio di uguaglianza e ragionevolezza, in quanto comporta la conseguenza che, per fatti meramente casuali, vengano applicate norme piu' sfavorevoli. Ritiene questo giudice che la sopra indicata disciplina presenti profili di assai dubbia razionalita', tali da determinare una possibile lesione del principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. In effetti, per quel che riguarda i processi per i quali sia gia' intervenuta una sentenza in primo grado puo' sostenersi che l'applicazione della pregressa disciplina sulla prescrizione, anche se meno favorevole, puo' trovare una giustificazione nella necessita' di non «neutralizzare» un accertamento giurisdizionale gia' effettuato sotto il vigore della precedente disciplina. D'altronde, il sistema processuale gia' conosce ipotesi nelle quali la sopravvenuta estinzione del reato non impedisce al giudice dell'impugnazione di pronunciarsi su determinati capi della sentenza (art. 578 c.p.p., relativo alle pronunce sugli effetti civili della sentenza in caso di estinzione del reato per amnistia o prescrizione). Viceversa, avere individuato per i giudizi ancora pendenti in primo grado la dichiarazione di apertura del dibattimento quale spartiacque tra la nuova e la vecchia disciplina della prescrizione determina una selezione tra le due normative collegata a profili di aleatorieta', non dipendenti da un atto di impulso processuale avente obiettiva rilevanza (quale, ad esempio l'esercizio dell'azione penale, momento nel quale il giudice viene investito della cognizione del processo), ma ad un evento in parte casuale, in parte addirittura dipendente dalle parti (si pensi, ad un difetto di notifica che ne imponga la rinnovazione, ovvero ad un impedimento dell'imputato o del difensore cui consegua il rinvio dell'udienza). A cio' si aggiunga che nelle ipotesi di concorso di persone nello stesso reato e' possibile che nel medesimo processo, trattato congiuntamente, sia stata disposta prima dell'entrata in vigore della legge n. 251 una separazione delle posizioni, con rinvio per uno degli imputati e dichiarazione di apertura del dibattimento per l'altro. Ebbene cio' determinerebbe la conseguenza - del tutto irragionevole - che, per colui nei cui confronti e' stato aperto il dibattimento, il reato si potrebbe prescrivere in un tempo doppio rispetto al coimputato che ha «beneficiato» del rinvio. Tale conclusione appare in palese contrasto con il principio per cui situazioni identiche devono essere trattate in modo uguale. L'avere il legislatore predisposto una disciplina che comporta conseguenze di questo tipo non sembra dunque conforme all'art. 3 Cost. Ne' tale possibile lesione verrebbe meno ove si ritenesse che solo la predisposizione di una siffatta disciplina transitoria (che ha l'effetto pratico di ridurre al minimo l'immediata applicazione dei nuovi e piu' favorevoli termini di prescrizione dei reati) ha evitato che, sotto le mentite spoglie di una riforma del regime della prescrizione, il legislatore adottasse una «amnistia impropria» in violazione della peculiare regola circa la maggioranza qualificata richiesta per adottare una legge di amnistia (art. 79 Cost. a seguito della modifica di cui alla legge cost. n. 1 del 6 marzo 1992), con la conseguenza che l'eventuale declaratoria di illegittiita' della norma transitoria farebbe assumere alla legge n. 251 valenza di amnistia adottata in violazione dell'art. 79 Cost. Infatti, quand'anche la pronuncia di incostituzionalita' determinasse tale effetto, non puo' negarsi che, in una scala di valore delle norme costituzionali, tra il principio di cui all'art. 3 Cost. - cosi' come i principi ricavabili dagli artt. 10 ed 11 Cost. (di cui si trattera' tra breve) - ed il mancato rispetto di una disciplina procedurale, dovrebbero prevalere i primi, attinenti ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale (per di piu' direttamente collegati all'applicazione delle sanzioni penali). La disciplina in questione sembra violare anche altri parametri costituzionali. Ritiene infatti questo giudice che il principio di necessaria applicazione retroattiva della norma penale piu' favorevole (quand'anche non incluso nell'art. 25 Cost.) trovi comunque fondamento costituzionale, in quanto portato della civilta' giuridica internazionale, ed espressamente previsto in convenzioni e trattati internazionali. In particolare, l'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, e reso esecutivo in Italia con la legge di ratifica 25 ottobre 1977, n. 881, prevede espressamente che «se posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena piu' lieve, il colpevole deve beneficiarne». E non sembra priva di rilievo la circostanza che l'Italia, nella citata legge n. 881, ha precisato (art. 4) che tale previsione «deve essere interpretata come riferita esclusivamente alle procedure ancora in corso. Conseguentemente, un individuo gia' condannato con sentenza passata in giudicato non potra' beneficiare di una legge che, posteriormente alla sentenza stessa, preveda l'applicazione di una pena piu' lieve»; e nello stesso senso e' stata inserita una dichiarazione all'atto di deposito dello strumento di ratifica nella Gazzetta Ufficiale 23 novembre 1978, n. 328. Infatti, il limite per l'applicazione della lex mitior rappresentato del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (norma pure contenuta nell'art. 2 comma 3 c.p.), rappresenta un principio anch'esso recepito a livello internazionale, quale idonea garanzia della certezza del diritto e della tutela dell'autorita' della cosa giudicata (nello stesso senso, codesta Corte ha rigettato una questione sollevata in riferimento alla modifica della disciplina della sospensione condizionale della pena di cui alla legge n. 220 del 1974, con la quale i giudici remittenti chiedevano una declaratoria che consentisse la revoca del giudicato di condanna al fine di poter concedere la sospensione della pena che non era stata disposta nel giudizio di cognizione in quanto all'epoca la disciplina allora vigente non lo consentiva: sentenza n. 74 del 1980). Identica disposizione e' ora contenuta anche nell' art. 49 comma 1 ultima parte della Carta dei diritti fondamentali, inserita nell'art. II-109 del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa (ratificato in Italia con la legge 7 aprile 2005, n. 57). Inoltre, la Corte di Giustizia delle Comunita' europea, in una recente decisione (Grande Sezione - Sentenza 3 maggio 2005 - Procc. C-387/02, C-391/02 e C-403/02, 1/21/2 67-69), ha precisato che «secondo una giurisprudenza costante, i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto cui la Corte garantisce l'osservanza. A tal fine, quest'ultima si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell'uomo cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito... Orbene, il principio dell'applicazione retroattiva della pena piu' mite fa parte delle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Ne deriva che questo principio deve essere considerato come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario...». Il principio di necessaria applicazione retroattiva della norma penale piu' favorevole e', dunque, «norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta» cui l'ordinamento interno deve conformarsi, ai sensi dell'art. 10 Cost., ed e' anche principio generale del diritto comunitario (rilevante dunque ai sensi dell'art. 11 Cost.). Ne' sembra corretto operare distinzioni tra norme penale che prevedano un pena piu' mite e norme penali che, modificando la disciplina di istituti di diritto penale sostanziale, come la prescrizione, incidano direttamente sull'estinzione dei reati. A maggior ragione queste ultime devono, se piu' favorevoli, essere applicate retroattivamente poiche' hanno l'effetto, come nel caso di specie, di determinare il proscioglimento dell'imputato (e dunque la non applicazione della pena). Non e', tuttavia, possibile per questo giudice disapplicare direttamente la norma interna per contrasto con la disciplina comunitaria. Infatti, se e' vero che l'ordinamento comunitario e l'ordinamento statale sono distinti ed al tempo stesso coordinati e le norme del primo vengono, in forza dell'art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione in quest'ultimo, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti statali, e che da cio' deriva non la caducazione della norma interna incompatibile bensi' la non applicazione di quest'ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie oggetto della sua cognizione, tale principio, per effetto della giurisprudenza costituzionale, e' stato applicato dapprima ai regolamenti comunitari (anteriori o successivi alla norma statale) e quindi esteso, a determinate condizioni, alle decisioni della Corte di giustizia e alle direttive del Consiglio delle comunita' (cosi', Corte cost., sent. n. 168 del 1991). Percio' discipline legislative interne contrastanti con principi di carattere generale - non consacrati cioe' in strumenti legislativi dell'Unione europea dotati di efficacia diretta ed immediata - non sembra possano essere disapplicate dal giudice italiano. In tal caso, non essendo possibile che restino prive di sindacato norme di legge interne che confliggono con principi generali del diritto internazionale e dell'Unione europea, ritiene questo giudice che il contrasto puo' rilevare quale violazione degli artt. 10 ed 11 Cost., da sottoporsi percio' al giudice delle leggi. Per tali ragioni, apparendo la questione rilevante nel presente giudizio e, nei limiti suindicati, non manifestamente infondata, si impone la rimessione della stessa a codesta Corte.