IL TRIBUNALE

    Ha   emesso  la  seguente  ordinanza  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale   di  questione  di  legittimita'  sollevata,  in  via
incidentale.

                          Ritenuto in fatto

    Con decreto di citazione diretta emesso dal pubblico ministero in
data  23  gennaio 2004 Landi Paolo veniva tratto a giudizio dinanzi a
questo  tribunale per rispondere della seguente imputazione: «delitto
p.  e  p. dagli artt. 81, 646, 61 nn. 7 e 11 c.p., perche' al fine di
profitto  abusando della qualita' di procacciatore di affari di fatto
per conto della Compagnia Cauzioni avendo percepito dai clienti della
predetta  societa',  a titolo di premio per le fideiussioni stipulate
per  conto  della  medesima  societa',  di cui al foglio allegato, la
somma  complessiva  di lire 2.013.902.984, ometteva di riversare alla
Compagnia  Cauzioni  l'intero  ammontare, detratte le provvigioni, in
particolare  trattenendo  complessivamente  lire 1.348.733.096 lorde,
con  grave  danno altrui. In Roma fino ad epoca successiva e prossima
al 24 novembre 1997».
    Nel  medesimo  procedimento  veniva  tratto a giudizio, per fatti
aventi  analogo  titolo  di reato e connessi con quelli contestati al
Landi,  Mottola  Bruno,  nei  cui  confronti,  a  seguito  di perizia
dibattimentale   che   accertava   l'incapacita'   dello   stesso  di
partecipare  coscientemente  al processo, veniva disposta all'udienza
del  28  febbraio 2005 la sospensione del processo ai sensi dell'art.
71 c.p.p., con separazione della relativa posizione.
    Si  procedeva  oltre nei confronti del Landi e all'udienza del 22
marzo   2005   veniva  dichiarata  l'apertura  del  dibattimento.  Si
svolgevano  quindi  le udienze di istruzione probatoria del 30 maggio
2005,  del  19  settembre  2005 - rinviata per adesione dei difensori
delle parti all'astensione proclamata dall'Unione delle camere penali
e del 19 ottobre 2005.
    All'udienza  del  30  gennaio  2006, la difesa del Landi eccepiva
l'incostituzionalita'  dell'art.  10  comma  3 legge 5 dicembre 2005,
n. 251 (c.d.«ex Cirielli»), nella parte in cui rende inapplicabili le
piu' favorevoli norme in tema di termini di prescrizione dei reati ai
processi  nei  quali, alla data di entrata in vigore della stessa, vi
era  gia'  stata  la  dichiarazione di apertura del dibattimento, per
contrasto  con  gli  artt.  3  e  27  della Costituzione. I1 pubblico
ministero  si  associava  alla  richiesta,  mentre il difensore della
costituita  parte  civile  chiedeva che la questione fosse dichiarata
manifestamente infondata.
    Il  tribunale  si  riservava  di  decidere  rinviando all'odierna
udienza.

                       Considerato in diritto

    Il Tribunale ritiene di dover rimettere alla Corte costituzionale
il  giudizio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3,
legge  n. 251  del  2005 per violazione degli artt. 3, 10 ed 11 della
Costituzione.
      Va  anzitutto  precisato  che  la  questione  e'  rilevante nel
presente processo.
    Infatti,  sulla  base  della  previgente  disciplina  relativa ai
termini di prescrizione, il tempo necessario a prescrivere un delitto
per  il quale la legge prevede una pena edittale massima compresa tra
i  cinque  ed  i  dieci  anni  di  reclusione  e'  pari a dieci anni,
suscettibile  di  aumento  sino ad un massimo complessivo di quindici
anni in caso di atti interruttivi (tra i quali e' compreso il decreto
di citazione a giudizio).
    Per  determinare  il  tempo  necessario  a  prescrivere si doveva
infatti  avere  riguardo  -  ai sensi del secondo comma dell'art. 157
c.p.  -  al  massimo  della  pena stabilita per il reato tenuto conto
dell'aumento massimo di pena stabilita' per le circostanze aggravanti
e  della  diminuzione minima stabilita per le circostanze aggravanti.
In  caso  di  concorso  di  circostanze aggravanti ed attenuanti deve
applicarsi  il  giudizio  di  valenza  di  cui  all'art.  69  c.p., e
determinarsi   quindi  la  pena  massima  applicabile  all'esito  del
giudizio stesso (art. 157 comma 3 c.p.).
    Non   essendovi,   allo   stato,   i   presupposti  per  ritenere
immediatamente   concedibili   le  circostanze  attenuanti  generiche
equivalenti  alle aggravanti contestate al Landi, come pure richiesto
dal  difensore dell'imputato e dal pubblico ministero all'udienza del
30  gennaio  2005, e quindi far operare la disciplina di cui all'art.
226  d.lgs.  n. 51 del 1998, il reato per cui si procede risulta allo
stato punito con pena superiore a cinque anni di reclusione (pena per
il  reato  di  cui  all'art.  646  c.p.  reclusione  fino a tre anni,
aumentata di un terzo per effetto della circostanza aggravante di cui
all'art.  61  n. 7  c.p.  e  di  un ulteriore terzo per effetto della
circostanza  aggravante  di  cui  all'art. 61 n. 11 c.p., pena finale
massima anni cinque e mesi quattro di reclusione).
    Pertanto,  il  termine  di  prescrizione  del  reato  come  sopra
indicato  e'  di  dieci  anni,  con  aumento  a  quindici  anni,  per
l'intervento  di  atti interruttivi. Inoltre, l'art. 158 comma 1 c.p.
disponeva che in caso di reato continuato, il termine di prescrizione
inizia a decorrere al cessare della continuazione.
    Infine,  l'art.  161  comma  2  c.p.  prevedeva  che  le cause di
sospensione  od interruzione relative ad alcuni dei reati per i quali
si procede congiuntamente hanno effetto anche per gli altri reati.
    Quindi,  sulla  base  di  queste  disposizioni,  i reati ascritti
all'imputato non sono prescritti.
    La  nuova  disciplina contenuta nella legge n. 251 del 2005 (art.
6, che modifica gli articoli da 157 a 161 del codice penale) prevede,
invece,  che  «La  prescrizione  estingue  il  reato decorso il tempo
corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e
comunque  un  tempo  non  inferiore  a  sei  anni  se  si  tratta  di
delitto...». Per determinare il tempo necessario a prescrivere «si ha
riguardo  alla  pena  stabilita  dalla legge per il reato consumato o
tentato,  senza  tenere  conto  della  diminuzione per le circostanze
attenuanti  e dell'aumento per le circostanze aggravanti per le quali
la  legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e
per  quelle  ad  effetto  speciale,  nel  qual  caso  si  tiene conto
dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante».
    In  caso  di atti interruttivi, il termine di prescrizione inizia
nuovamente  a  decorrere,  ma  in  nessun  caso  l'interruzione della
prescrizione  puo'  -  per  procedimenti  diversi  da quelli indicati
nell'art.  51  commi  3-bis  e  3-quater c.p.p., e salva l'ipotesi di
recidiva aggravata (l'imputato non e' gravato da precedenti condanne)
-  comportare  l'aumento  di piu' di un quarto del tempo necessario a
prescrivere.
    E'  stata, inoltre eliminata la disposizione che prevedeva che in
caso  di continuazione dei reati il termine di prescrizione iniziasse
a  decorrere  solo  dal  giorno  in  cui e' cessata la continuazione,
nonche'  quella  che,  in caso di procedimento unitario per reati tra
loro   connessi,   prevedeva   che  le  cause  di  sospensione  o  di
interruzione  della  prescrizione  relative ad uno dei reati connessi
avesse  effetto  anche per gli altri. Quindi il termine di decorrenza
iniziale della prescrizione coincide, anche in caso di continuazione,
con  la  consumazione  di  ciascun reato e le cause di sospensione ed
interruzione  della  prescrizione  relative ad un reato non esplicano
effetto  riguardo  agli  altri  reati connessi per i quali si proceda
congiuntamente.
    Pertanto,  sulla  base della nuova disciplina i reati ascritti al
Landi sarebbero gia' estinti per prescrizione.
    Infatti,  non  avendo piu' rilevanza le circostanze aggravanti ad
effetto  ordinario  (quali  quelle  indicate  nell'art.  61  c.p. che
comportano un aumento della pena fino ad un terzo), tutti gli episodi
di  appropriazione  indebita  si prescrivono nel termine di sei anni,
termine  che puo' essere per l'intervento atti interruttivi aumentato
al  massimo  a  sette  anni  e  mesi  sei,  decorrenti  dalla data di
commissione dei singoli reati.
    Pertanto, trattandosi di fatti commessi al piu' tardi nel mese di
novembre  del  1997  e  valendo  per  Landi  solo  la sospensione del
dibattimento   per  l'adesione  del  difensore  all'astensione  dalle
udienze  (dal  19  settembre  al  19  ottobre 2005 per giorni 30; non
estendendosi all'imputato i periodi di sospensione relativi all'altro
imputato  Mottola  Bruno),  sarebbe  interamente  decorso  il termine
massimo  di  prescrizione  dei  reati, e dunque il tribunale dovrebbe
pronunciare  sentenza  di improcedibilita' ai sensi degli artt. 157 e
160 c.p., e 531 c.p.p.
    Tale  pronuncia  e'  allo stato impedita proprio dalla disciplina
transitoria  contenuta  nell'art.  10 della legge n. 251, in quanto -
poiche'  alla  data  di  entrata in vigore della legge era gia' stata
dichiarata l'apertura del dibattimento - deve trovare applicazione la
previgente   normativa,   che   nel   caso   in  esame  determina  un
raddoppiamento dei termini di prescrizione rispetto alla nuova.
    Per  tali  ragioni,  la  questione  appare rilevante nel presente
giudizio.
    Quanto alla non manifesta infondatezza della questione (giacche',
ovviamente,  il  tribunale  puo'  evitare  di  rimettere la questione
eccepita alla Corte costituzionale solo ove la ritenga manifestamente
infondata,    e    dunque   non   meritevole   dello   scrutinio   di
costituzionalita'  devoluto  al  giudice delle leggi), deve rilevarsi
quanto segue.
    Per quanto consta, e' la prima volta che il legislatore ordinario
predispone una disciplina transitoria di natura sostanziale (giacche'
non  sembrano  esservi  dubbi  che  la  prescrizione  non e' istituto
processuale,  ma  attiene  alle  cause  di  estinzione dei reati e ha
dunque  evidente  natura  penale  sostanziale),  che  impone  di  non
applicare  retroattivamente nei giudizi in corso la disciplina penale
sopravvenuta piu' favorevole per l'imputato.
    E'  ancora  da  precisare  che  -  nonostante  taluni  autorevoli
orientamenti  della  dottrina  -  codesta  Corte ha sempre in passato
ritenuto   che   ha   rilievo   costituzionale  solo  il  divieto  di
retroattivita'  della  norma  penale  incriminatrice (art. 25 comma 2
Cost.),  e  non  anche  il principio della retroattivita' della norma
penale piu' favorevole di cui all'art. 2 comma 3 c.p. (v., da ultimo,
sent.  n. 80  del  1995,  che ha dichiarato infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  sollevata  in  riferimento  all'art. 20
della  legge  n. 4  del 1929, che prevedeva la irretroattivita' delle
norme penali finanziarie piu' favorevoli).
    Peraltro,  tale  norma  derogatoria  e' stata infine abrogata dal
legislatore  con  l'art.  24 della legge n. 507 del 1999, di talche',
prima della previsione contenuta nell'art. 10 della legge n. 251, non
residuavano   piu'   nel   nostro   ordinamento  casi  di  discipline
derogatorie  al  principio generale di applicazione retroattiva della
legge penale piu' favorevole, contenuto nell'art. 2 comma 3 c.p.
    Va  anche osservato che la Corte di cassazione ha gia' affrontato
la questione in oggetto, ritenendola manifestamente infondata.
    In  particolare, nella pronuncia piu' articolata emessa sul punto
(VI  Sezione penale, sent. n. 460 del 2005, udienza 12 dicembre 2005,
deposito 10 gennaio 2006), la S.C. ha ritenuto:
        che  il  principio  di  applicazione  retroattiva della norma
penale piu' favorevole non ha rilievo costituzionale;
        che  il  legislatore ordinario e' dunque libero di modulare e
graduare  le  modalita' di applicazione della legge penale successiva
piu'  mite,  introducendo condizioni, limiti ed eccezioni che ritenga
opportuni;
        che  tale disciplina non incorre nella violazione dell'art. 3
della  Costituzione  ove  le  soluzioni  legislative  adottate  siano
sorrette da valutazioni e giustificazioni non irragionevoli;
        che comunque - come evidenziato dalla Corte costituzionale in
alcune   sue  pronunce,  e  confermato  dagli  sviluppi  del  diritto
internazionale  e  comunitario - il principio di retroattivita' della
norma  penale  piu'  favorevole  puo'  avere riguardo solo ove vi sia
stato  un mutamento, favorevole al reo; nella valutazione sociale del
fatto tipico;
        che,  nel  caso  di specie, la soluzione legislativa adottata
nel  delineare  la  disciplina  transitoria non viola il principio di
uguaglianza,  in  quanto e' del tutto normale che la disciplina della
prescrizione possa dar luogo a diversita' di trattamento tra imputati
di  fatti  identici  o analoghi, anche commessi nello stesso momento,
per  effetto  di  una  serie  di  variabili  che  incidono  sui tempi
dell'accertamento penale;
        che, inoltre, la disciplina transitoria contenuta nella legge
n. 251 da un lato rende inapplicabili retroattivamente le nuove norme
in   tema  di  prescrizione,  laddove  siano  meno  favorevoli  delle
precedenti;  dall'altro,  prevedendo che continuino ad applicarsi nei
procedimenti  penali relativi ai fatti pregressi le vecchie norme, fa
si  che  trovino applicazione le norme che vigevano al momento in cui
il fatto di reato e' stato commesso. Pertanto non viene in alcun modo
intaccato  il  nucleo  centrale  della  garanzia  dell'istituto della
prescrizione.
    Alcuni  giudici  di  merito  hanno  invece sollevato la questione
relativa    alla   legittimita'   costituzionale   della   disciplina
transitoria,  rilevando  che  l'individuazione della dichiarazione di
apertura  del  dibattimento  di  primo  grado,  quale  discrimine per
l'applicazione   ultrattiva   della   disciplina  della  prescrizione
previgente  nei  casi  in cui essa sia concretamente piu' sfavorevole
per  l'imputato,  viola il principio di uguaglianza e ragionevolezza,
in  quanto  comporta la conseguenza che, per fatti meramente casuali,
vengano applicate norme piu' sfavorevoli.
    Ritiene  questo giudice che la sopra indicata disciplina presenti
profili  di  assai  dubbia  razionalita',  tali  da  determinare  una
possibile  lesione  del  principio di uguaglianza e ragionevolezza di
cui all'art. 3 Cost.
    In effetti, per quel che riguarda i processi per i quali sia gia'
intervenuta   una   sentenza  in  primo  grado  puo'  sostenersi  che
l'applicazione  della  pregressa disciplina sulla prescrizione, anche
se meno favorevole, puo' trovare una giustificazione nella necessita'
di   non   «neutralizzare»   un   accertamento  giurisdizionale  gia'
effettuato sotto il vigore della precedente disciplina.
    D'altronde,  il  sistema  processuale  gia' conosce ipotesi nelle
quali  la  sopravvenuta estinzione del reato non impedisce al giudice
dell'impugnazione  di pronunciarsi su determinati capi della sentenza
(art. 578  c.p.p.,  relativo alle pronunce sugli effetti civili della
sentenza   in   caso   di   estinzione   del  reato  per  amnistia  o
prescrizione).
    Viceversa,  avere  individuato  per  i giudizi ancora pendenti in
primo  grado  la  dichiarazione  di  apertura  del dibattimento quale
spartiacque  tra  la nuova e la vecchia disciplina della prescrizione
determina  una  selezione tra le due normative collegata a profili di
aleatorieta', non dipendenti da un atto di impulso processuale avente
obiettiva   rilevanza  (quale,  ad  esempio  l'esercizio  dell'azione
penale, momento nel quale il giudice viene investito della cognizione
del processo), ma ad un evento in parte casuale, in parte addirittura
dipendente  dalle  parti  (si pensi, ad un difetto di notifica che ne
imponga la rinnovazione, ovvero ad un impedimento dell'imputato o del
difensore cui consegua il rinvio dell'udienza).
    A cio' si aggiunga che nelle ipotesi di concorso di persone nello
stesso  reato  e'  possibile  che  nel  medesimo  processo,  trattato
congiuntamente, sia stata disposta prima dell'entrata in vigore della
legge  n. 251  una  separazione  delle  posizioni, con rinvio per uno
degli  imputati  e  dichiarazione  di  apertura  del dibattimento per
l'altro.  Ebbene  cio'  determinerebbe  la  conseguenza  -  del tutto
irragionevole  -  che, per colui nei cui confronti e' stato aperto il
dibattimento,  il  reato  si  potrebbe prescrivere in un tempo doppio
rispetto al coimputato che ha «beneficiato» del rinvio.
    Tale  conclusione appare in palese contrasto con il principio per
cui situazioni identiche devono essere trattate in modo uguale.
    L'avere  il  legislatore  predisposto una disciplina che comporta
conseguenze  di  questo  tipo  non  sembra dunque conforme all'art. 3
Cost.
    Ne'  tale  possibile  lesione  verrebbe meno ove si ritenesse che
solo  la  predisposizione di una siffatta disciplina transitoria (che
ha  l'effetto  pratico  di ridurre al minimo l'immediata applicazione
dei  nuovi  e  piu'  favorevoli termini di prescrizione dei reati) ha
evitato che, sotto le mentite spoglie di una riforma del regime della
prescrizione,  il  legislatore  adottasse una «amnistia impropria» in
violazione  della  peculiare  regola circa la maggioranza qualificata
richiesta per adottare una legge di amnistia (art. 79 Cost. a seguito
della modifica di cui alla legge cost. n. 1 del 6 marzo 1992), con la
conseguenza che l'eventuale declaratoria di illegittiita' della norma
transitoria  farebbe  assumere  alla legge n. 251 valenza di amnistia
adottata in violazione dell'art. 79 Cost.
    Infatti,   quand'anche   la   pronuncia   di  incostituzionalita'
determinasse  tale  effetto,  non  puo'  negarsi che, in una scala di
valore delle norme costituzionali, tra il principio di cui all'art. 3
Cost.  -  cosi' come i principi ricavabili dagli artt. 10 ed 11 Cost.
(di  cui  si  trattera'  tra  breve)  - ed il mancato rispetto di una
disciplina  procedurale,  dovrebbero  prevalere i primi, attinenti ai
principi  fondamentali  del nostro ordinamento costituzionale (per di
piu' direttamente collegati all'applicazione delle sanzioni penali).
    La  disciplina  in questione sembra violare anche altri parametri
costituzionali.
    Ritiene  infatti  questo  giudice  che il principio di necessaria
applicazione   retroattiva   della   norma   penale  piu'  favorevole
(quand'anche   non   incluso   nell'art.  25  Cost.)  trovi  comunque
fondamento costituzionale, in quanto portato della civilta' giuridica
internazionale,  ed  espressamente previsto in convenzioni e trattati
internazionali.
    In  particolare,  l'art.  15 del Patto internazionale sui diritti
civili  e  politici,  adottato a New York il 16 dicembre 1966, e reso
esecutivo in Italia con la legge di ratifica 25 ottobre 1977, n. 881,
prevede  espressamente  che  «se  posteriormente alla commissione del
reato,  la  legge  prevede  l'applicazione di una pena piu' lieve, il
colpevole deve beneficiarne».
    E  non sembra priva di rilievo la circostanza che l'Italia, nella
citata  legge n. 881, ha precisato (art. 4) che tale previsione «deve
essere  interpretata  come  riferita  esclusivamente  alle  procedure
ancora  in  corso. Conseguentemente, un individuo gia' condannato con
sentenza  passata  in  giudicato  non potra' beneficiare di una legge
che,  posteriormente  alla sentenza stessa, preveda l'applicazione di
una  pena  piu'  lieve»;  e  nello stesso senso e' stata inserita una
dichiarazione  all'atto di deposito dello strumento di ratifica nella
Gazzetta Ufficiale 23 novembre 1978, n. 328.
    Infatti,   il   limite   per   l'applicazione  della  lex  mitior
rappresentato  del  passaggio in giudicato della sentenza di condanna
(norma  pure  contenuta  nell'art.  2  comma  3 c.p.), rappresenta un
principio  anch'esso  recepito a livello internazionale, quale idonea
garanzia  della  certezza  del  diritto e della tutela dell'autorita'
della  cosa giudicata (nello stesso senso, codesta Corte ha rigettato
una questione sollevata in riferimento alla modifica della disciplina
della  sospensione  condizionale  della pena di cui alla legge n. 220
del   1974,   con  la  quale  i  giudici  remittenti  chiedevano  una
declaratoria  che  consentisse la revoca del giudicato di condanna al
fine  di  poter concedere la sospensione della pena che non era stata
disposta nel giudizio di cognizione in quanto all'epoca la disciplina
allora vigente non lo consentiva: sentenza n. 74 del 1980).
    Identica  disposizione e' ora contenuta anche nell' art. 49 comma
1  ultima  parte  della  Carta  dei  diritti  fondamentali,  inserita
nell'art.  II-109  del  Trattato  che  adotta  una  Costituzione  per
l'Europa (ratificato in Italia con la legge 7 aprile 2005, n. 57).
    Inoltre,  la  Corte  di Giustizia delle Comunita' europea, in una
recente  decisione  (Grande Sezione - Sentenza 3 maggio 2005 - Procc.
C-387/02,  C-391/02  e  C-403/02,  1/21/2  67-69),  ha  precisato che
«secondo   una   giurisprudenza   costante,  i  diritti  fondamentali
costituiscono  parte integrante dei principi generali del diritto cui
la  Corte garantisce l'osservanza. A tal fine, quest'ultima si ispira
alle  tradizioni  costituzionali  comuni  agli  stati  membri  e alle
indicazioni  fornite dai trattati internazionali in materia di tutela
dei  diritti  dell'uomo  cui  gli  Stati  membri  hanno  cooperato  o
aderito...  Orbene,  il principio dell'applicazione retroattiva della
pena  piu'  mite fa parte delle tradizioni costituzionali degli Stati
membri.  Ne  deriva che questo principio deve essere considerato come
parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il
giudice  nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale
adottato per attuare l'ordinamento comunitario...».
    Il  principio  di necessaria applicazione retroattiva della norma
penale  piu'  favorevole e', dunque, «norma di diritto internazionale
generalmente    riconosciuta»    cui   l'ordinamento   interno   deve
conformarsi,  ai  sensi  dell'art. 10  Cost.,  ed  e' anche principio
generale del diritto comunitario (rilevante dunque ai sensi dell'art.
11 Cost.).
    Ne'  sembra  corretto  operare  distinzioni  tra norme penale che
prevedano  un  pena  piu'  mite  e  norme  penali che, modificando la
disciplina  di  istituti  di  diritto  penale  sostanziale,  come  la
prescrizione,  incidano  direttamente  sull'estinzione  dei  reati. A
maggior  ragione  queste  ultime  devono,  se piu' favorevoli, essere
applicate  retroattivamente poiche' hanno l'effetto, come nel caso di
specie,  di determinare il proscioglimento dell'imputato (e dunque la
non applicazione della pena).
    Non  e',  tuttavia,  possibile  per  questo  giudice disapplicare
direttamente  la  norma  interna  per  contrasto  con  la  disciplina
comunitaria.
    Infatti, se e' vero che l'ordinamento comunitario e l'ordinamento
statale  sono  distinti  ed al tempo stesso coordinati e le norme del
primo  vengono,  in  forza  dell'art.  11  Cost.,  a ricevere diretta
applicazione in quest'ultimo, pur rimanendo estranee al sistema delle
fonti  statali,  e  che da cio' deriva non la caducazione della norma
interna  incompatibile  bensi' la non applicazione di quest'ultima da
parte  del  giudice  nazionale  al  caso  di specie oggetto della sua
cognizione,   tale   principio,   per  effetto  della  giurisprudenza
costituzionale, e' stato applicato dapprima ai regolamenti comunitari
(anteriori  o  successivi  alla  norma  statale)  e  quindi esteso, a
determinate  condizioni,  alle  decisioni  della Corte di giustizia e
alle  direttive  del  Consiglio  delle comunita' (cosi', Corte cost.,
sent. n. 168 del 1991).
    Percio'  discipline legislative interne contrastanti con principi
di carattere generale - non consacrati cioe' in strumenti legislativi
dell'Unione  europea  dotati  di efficacia diretta ed immediata - non
sembra possano essere disapplicate dal giudice italiano.
    In tal caso, non essendo possibile che restino prive di sindacato
norme  di  legge  interne  che  confliggono con principi generali del
diritto  internazionale e dell'Unione europea, ritiene questo giudice
che  il contrasto puo' rilevare quale violazione degli artt. 10 ed 11
Cost., da sottoporsi percio' al giudice delle leggi.
    Per  tali  ragioni, apparendo la questione rilevante nel presente
giudizio  e,  nei limiti suindicati, non manifestamente infondata, si
impone la rimessione della stessa a codesta Corte.